STORIE - FATTI - RACCONTI-NON SOLO DI RADIO

VIBRAZIONI

Una sera, in Sezione, un amico OM chiese chi era disposto ad accompagnarlo presso un istituto per ragazzi adolescenti sordomuti; rimasi un poco interdetto: fare una dimostrazione radio a dei sordomuti !!!….. comunque aderii con piacere.

Si celebrava l’anniversario della fondazione dell'Istituto stesso  e la festa era stata allestita nel parco circostante.

Al nostro arrivo ci trovammo immersi in una girandola allegra : genitori, insegnanti, ragazzi dai 7 ai 15 anni; vi erano anche clown e mimi, tavoli pieni di fogli colorati e attrezzi ginnici un po’ dappertutto .

Eravamo stati preavvertiti  che ci sarebbe stata  anche una postazione di radioamatori della protezione civile con cucina da campo.

Nell'intento degli istruttori vi era anche quello di insegnare ai ragazzi l'esistenza di una struttura in grado di intervenire celermente nei casi di calamità naturale.

Ci avvicinammo presso i tavoli allestiti dai nostri amici e dopo baci e abbracci con i nostri vecchi amici OM presenti ci accomodammo su un tavolino vicino.

Come solito quando faccio tali tipi di interventi porto la mia vecchia fida radio da asporto (Kenwood 440) e la mia valigetta 48 ore dove sistemo le filari e i miei tasti.

Avete presente quella pubblicità dove il tizio apre la valigetta ed espone i  barattoli di sughi come fossero diamanti?

Ebbene anch'io tra la meraviglia dei presenti tiro fuori il  keyer Kent, il verticale tipo swedish Petterson  di (I1QOD) e l'original  vibroplex presentation.(a proposito il microfono me lo dimentico sempre!)

Dopo aver istallato fra i rami le filari inizio a chiamare cq in 20 metri in telegrafia con l'indicativo di Sezione IQ0RM, (tatitati tatatita ……..) porto a termine qualche qso fintanto che arrivano alla spicciolata un paio di ragazze dell'istituto, mi girano intorno come fossi un  marziano e scappano subito fra smorfiette sorridenti.

Realizzo che loro la radio certo non la possono usare, smetto di fare qso e mentre assorto pensavo a ciò arriva un gruppetto di ragazzi insieme al proprio istruttore sollecitati chiaramente dalle ragazze di prima.

L'istruttore con quel loro meraviglioso linguaggio fatto di gesti e movimenti labiali spiega loro qualcosa: probabilmente racconta la funzione della radio o forse un pò di storia, naturalmente io non capisco ma nel frattempo una bambina mette un dito sul pomello del verticale e manda in trasmissione il tx.

Mi viene un'idea! : perché non  farli provare? Con l’aiuto dell’istruttore chiedo a ciascuno di scrivere i propri nomi su un foglio, poi  uno ad uno con la loro manina avvolta dalla mia li invito a operare con il verticale facendogli capire che ad ogni lettera del proprio nome corrisponde un suono……..già suono! Rimango ancora interdetto, poi gli faccio poggiare la mano sinistra sull'altoparlante.

Credetemi un brivido mi ha percorso le membra e ancora oggi mi succede nel ricordare  che loro potevano sentire la radio. E l' incredibile avviene quando dopo un paio ripetizioni con il mio aiuto trasmettevano da soli  avendo imparando velocemente le lettere dei loro nomi.

Tutti hanno provato  e dai sorrisi che mostravano appariva tutta la loro contentezza.

Si sono allontanati con il loro istruttore ed io sono rimasto li sbigottito ma pieno di orgoglio.

Poco dopo una ragazzina di dieci anni, affascinata da questo modo di esprimersi,  è tornata ed ha voluto riprovare finchè non se la son venuta a prendere per andare a mangiare.

La magia del CW  ha colpito ancora.

Il linguaggio di suoni brevi e lunghi ed il vibrare di un altoparlante può avvicinare al nostro mondo anche un portatore di handicap di questo tipo e a me personalmente questa esperienza ha fatto capire che non esistono ostacoli impossibili, tutti possono vivere una vita e che anche in questo caso ne vale veramente la pena di vivere.

 

Giordano 

  Onda su onda

 

“Break break, Mandarino!”

 

Nasce dalle onde, questa storia.

Non le onde del mare.

Quelle sarebbe troppo facile raccontarle, persino banale. E poi, cosa vuoi dire di più, dopo che è stato scritto che dalla schiuma del mare “vergine nacque Venere”?

Le onde di cui parlo io sono eteree, impalpabili e solo le menti elette possono vederle.

E’ strano come il principio di una storia possa perdersi tanto addietro nel tempo, così tanto che ti viene da pensare che una mano invisibile ha messo a posto i tasselli di un gigantesco puzzle, fino a quando anche l’ultima tessera viene sistemata e allora dici: - ma certo! - e non ti spieghi come mai, fino a quel momento, non riuscivi a comprendere l’immagine che si stava via via disegnando proprio sotto i tuoi occhi.

 

Tutto inizia a Villa Griffone, una magione dall’aspetto tetro situata in un paesucolo sperduto dell’Appennino Tosco-Emiliano.

Intorno, campagna; campagna buona per pascoli e vigneti.

C’è un ragazzo, in quella casa, figlio di gente ricca, ma lui è solo, non ha compagni di gioco - se si esclude il vecchio maggiordomo - ed è persino un po’ snob (lo resterà fino al giorno della sua morte) e questo non lo aiuta certo a farsi molti amici.

La sua famiglia possiede terreni che si estendono per acri, a perdita d’occhio, ma il ragazzino, affacciandosi dalla sua stanza, non può vederli: una collina gli si para davanti ed egli impara presto ad odiarla, perché non gli permette di abbracciare con lo sguardo quella terra di cui suo padre gli parla dicendogli, con tono fiero eppure malinconico, “Un giorno tutto questo sarà tuo”.

Oh, lo sa benissimo cosa c’è oltre il colle e poi è proprio ad uno sputo dal portone della villa: ci vogliono sì e no dieci minuti per raggiungerne i piedi, scalarlo, arrivare in cima ed osservare distese verdi senza apparente confine.

Ma il ragazzo è pigro, molto pigro, così la collina diventa il suo nemico personale e promette vendetta, giura che non gli resisterà e la notte, finalmente, potrà dormire sereno perché è lei, la collina, che gli rovina la digestione e gli agita i sogni e quindi sconfiggerla diventa un bisogno fisico di sopravvivenza. O lui, o lei!

Abbatterla o scavarci una galleria richiederebbe troppo tempo e fatica e lui è ansioso di vincere in fretta e allora bisogna usare il cervello, spremere le meningi ed egli le spreme così tanto che ad un certo punto ha le visioni, lo colgono le allucinazioni: vede le onde.

I suoi lo credono un po’ stravagante, ma lo lasciano fare, è solo un bambino e preferiscono di gran lunga che se ne resti in casa, piuttosto che frequentare i bifolchi che brulicano come formiche sulle loro proprietà.

E così, lui vede le onde. Si agitano di fronte a lui, nell’aria, verrebbe quasi da allungare la mano ed afferrarle, farsi trasportare laddove lo sguardo non può arrivare e le vede superare la collina.

Sogna di cavalcarle o di navigarle ed il suo sogno è così intenso che sogna anche alla luce del sole fino a quando, un giorno, appoggiato al davanzale della sua finestra, ode uno sparo provenire da dietro il colle.

E’ in quel preciso istante che il suo sogno finisce e diventa realtà.

La collina è sconfitta, non esiste più perché egli la può oltrepassare senza muoversi dalla propria stanza. E’ il 1895 e Guglielmo Marconi ha scoperto la trasmissione senza fili.

 

Ma non è questa la storia che voglio raccontarti.

 

La mia storia inizia ora. Anzi è iniziata non molto tempo addietro, più o meno quindici anni fa e…. Per le potenze dell’Olimpo! Ti accorgi di essere diventato vecchio quando un’enormità come quindici anni ti sembra “non molto tempo fa”.

Era un caldo pomeriggio d’estate e quasi tutti erano in vacanza, al mare o in montagna o…. chissà dove.

Era una domenica e me lo ricordo perché la mia squadra prese una di quelle batoste….

A dire il vero, non è che fosse una grossa novità: era una squadra di brocchi e perdeva quasi sempre, con una costanza che secondo me avrebbero dovuto premiare, ma quel giorno fu una vera Caporetto.

E pensare che alla fine del primo tempo eravamo sotto di appena…. Oh ma non credo che questo t’interessi, non ha nulla a che vedere con la nostra storia e poi non è gentile, da parte tua, risvegliare negli anziani ricordi tanto dolorosi!
Ti basti sapere che era estate, era domenica, era pomeriggio, che la città era vuota e che io giravo in macchina, grondante di sudore, alla disperata ricerca di un benzinaio aperto perché la spia della riserva brillava rossa come una bomba H al momento dell’esplosione.

Mi trovavo nella periferia sud e ormai mi stavo rassegnando a rimanere in panne e a dover tornare a casa a piedi, attraversando l’intera città, quando ad un certo punto, l’insegna “Aperto” di un distributore mi apparve come oasi in mezzo al deserto. Avevo sete e la benzina mi avrebbe dissetato!

Accostai alla pompa ed il benzinaio uscì malvolentieri dal casotto dove un ventilatore gli soffiava aria calda in viso come fosse un phon.

Chiesi il pieno e, già che c’ero, anche una lavatina al parabrezza del mio macinino. Mentre il poveretto estraeva un lavavetri da un secchio la cui acqua aveva visto tempi migliori, scesi dalla macchina approfittandone per prendere una boccata d’aria.

Fu allora che mi accorsi di una porticina aperta a fianco del gabbiotto del benzinaio, da cui potevo spiare un gruppetto di persone intente a ciarlare, unici esseri viventi in una città post-atomica.

Tra loro intravidi anche una donna non più giovane, come la maggior parte di quelli che erano là, forse un po’ sovrappeso, gli occhiali da lettura appesi al collo ed una sigaretta tra le dita.

Era appoggiata all’uscio e parlava verso l’interno con la voce arrochita dei forti fumatori.

Da dentro proveniva un gran vociare ed il donnone partecipava animosamente alla discussione ma, così distante dagli altri, si trovava probabilmente in una posizione di svantaggio, ed allora aspirò l’ultima boccata dalla sigaretta e soffiò il fumo all’esterno prima di gettare la cicca e rientrare.

Ricordo che pensai che buttare un tizzone ardente verso una pompa di benzina non mi sembrava una buon’idea, così spensi io stesso quella brace prima che saltasse tutto in aria.

A quel punto il benzinaio si accostò dicendomi che aveva finito.

Mentre pagavo, gli chiesi chi fossero quelle persone, ma lui si limitò a scrollare le spalle senza dire una sola parola, mi consegnò il resto e tornò al phon nel suo gabbiotto.

Montai in macchina e avviai il motore. Passando davanti alla porticina, gettai un ultimo sguardo a quella strana combriccola.

 

Quella domenica mi ero trovato per caso in una zona così lontana da casa e dai miei soliti percorsi, ma così strana m’era parsa tutta la scena che tornai più e più volte, nelle settimane seguenti a rifornirmi a quel distributore, pur se questo significava dover fare lunghissime deviazioni e probabilmente rimetterci una fortuna in benzina.

La seconda volta che passai, la porticina era chiusa e non c’era nessuno.

Non me la sentii di chiedere spiegazioni al benzinaio: non aveva la faccia molto amichevole.

Nelle occasioni successive, trovai quasi sempre qualcuno.

A volte erano solo in tre o quattro, a volte di più, soprattutto nei fine settimana, e notai che difficilmente mancava il donnone che fumava sull’uscio.

Un giorno poi, dalla porticina uscì un cagnetto dal muso simpatico, ma nel complesso piuttosto bruttino: era quasi completamente bianco, eccezion fatta per le orecchie marroni ed una chiazza dello stesso colore all’attaccatura della coda, gli occhi erano a palla ed il suo incedere non l’avrei certo definito elegante.

A tratti si sollevava sulle zampe posteriori allungando all’aria il muso, nel tentativo di seguire chissà quale pista olfattiva e brontolava una specie d’abbaio a presenze invisibili.

Dopo aver rincorso qualche sua preda immaginaria, lappò avidamente dell’acqua che una mano pietosa aveva versato in un portacenere poggiato là fuori sull’asfalto, e quindi rientrò aggirandosi tra le sedie e le gambe di quanti chiacchieravano bonariamente.

In una delle mie soste, tentai persino un cauto avvicinamento alla porticina con la scusa del cagnetto (che poi scoprii essere femmina), ma quello, tutt’altro che amichevolmente, snudò le zanne rivolgendomi un ringhio minaccioso e così mi allontanai, fingendo indifferenza e dicendogli “Credi di farmi paura?”.

In effetti, era proprio così: non ho mai amato gli animali.

 

Passarono i mesi.

Quando dovetti sostituire l’olio del motore, tornai là e mentre il benzinaio issava l’auto col sollevatore, io passeggiavo avanti e indietro fingendo di leggere un giornale ma con tutta l’intenzione di spiare attraverso la porticina.

Erano in tre: la donnona, un uomo barbuto che teneva in braccio il cagnolino e un altro uomo dalle mani tanto grandi da apparirmi enormi persino da quella distanza.

Il benzinaio, credo, aveva ormai capito la mia insistenza a tornare da lui, ma non diede mai a farmi intendere di avere il minimo interesse alle mie visite più o meno regolari e nonostante il passare del tempo non mi rivolse mai la parola.

Col trascorrere degli anni notai che i membri della strana combriccola diminuivano tuttavia non mi accadde mai di veder mancare la donna.

Fu durante un’altra afosa domenica d’estate, in una città di nuovo deserta che, tornando al distributore - quel giorno il benzinaio non era di turno e quindi il gabbiotto era serrato - vidi la porticina aperta e qualcosa, come un interruttore, scattò in me.

Parcheggiai la macchina sotto gli alberi al centro della strada e passai davanti alla pompa facendo finta di nulla, come se fossi lì per caso.

E per la prima volta, nella stanzetta non vidi altri che un vecchio con la barba quasi completamente bianca ed il cane, ormai sfinito dall’età e dalla calura, sdraiato sul pavimento a cercare un minimo di refrigerio.

Per la prima volta, in tanti anni, non c’era la donna, non c’era l’uomo dalle mani enormi che col tempo avevo imparato a riconoscere dalla pesante cadenza romanesca, non c’era nessun altro.

Solo quel vecchio.

Provai un vuoto allo stomaco, una vertigine, e finalmente, dopo sette anni dalla lontana domenica in cui avevo notato la porticina aperta, presi il coraggio di affrontare quella mia specie di ossessione.

Mi avvicinai all’uscio, bussai lievemente e con la testa mi affacciai:

- E’ permesso?

La cagnetta sollevò appena la testolina, giusto il tempo di capire se fossi o meno una minaccia, poi tornò a sdraiarsi e ad ansimare dal caldo.

La stanza era male illuminata dalla luce esterna che penetrava attraverso la vetrata fumè. Intorno ad un gran tavolo, stavano disposte in ordine alcune sedie che, seppur vuote, sembravano occupate, come se vi fosse stato qualcuno in compagnia del vecchio.

Alle spalle dell’uomo e sulla parete subito a sinistra dell’entrata, v’erano dei casellari vuoti e ognuna delle caselle era identificata da una strana sigla alfanumerica.

- Entri pure - disse il vecchio - la stavo aspettando.

- Credo si stia sbagliando - risposi. - Non ci conosciamo ed io sono qui per caso.

- Un caso che si ripete da sette anni, immagino.

Lo sapeva! Quel vecchio se n’era accorto! E magari se n’erano accorti anche gli altri, anche il donnone, anche l’uomo dalle mani giganti! E io avevo fatto la figura dello stupido per sette lunghi anni. Per tutto quel tempo avevano riso di me, me li immaginavo a darsi di gomito e a dirsi “Eccolo di nuovo, è tornato”.

Decisi di negare, anche se ormai ero stato scoperto, sentendomi come il bambino pizzicato a ficcare le dita nel vasetto della marmellata.

- Le ripeto, si sta sbagliando. Deve avermi scambiato per qualcun altro. Non sono mai passato qui prima d’ora.

- Se lo dice lei - replicò il vecchio - dev’essere senz’altro così. Mi perdoni, la mia vista non è più quella di una volta.

Mi rilassai e trassi un profondo sospiro, ma l’uomo riprese a parlare:

- Certo, questo vorrebbe dire che anche Sira s’è sbagliata - disse indicando il cane (fu allora che scoprii trattarsi di una cagna) - visto che non le ha ringhiato contro, come invece fa con tutti gli estranei. Strano, parrebbe quasi essersi abituata a lei.

Mi fissò con un sorriso sgembo che la diceva lunga.

Io restai immobile, sulla porta.

- E poi - riprese il vecchio - sì, la mia vista non è più buona come una volta. Le orecchie, per fortuna, funzionano ancora bene e, mi creda, riconoscerei il ta-ti-ta-ti dei suoi passi in mezzo alla folla brulicante di via del Corso il primo giorno dei saldi.

- Riconoscerebbe cosa? –

- Lasci stare, non capirebbe. Entri e si accomodi.

Entrai nella stanzetta e guardai le sedie.

Continuavo ad avere la fastidiosa sensazione che non fossero vuote, che delle presenze invisibili sedessero in ascolto, gli sguardi silenziosi fissati su di me.

Il vecchio dovette notare quel mio disagio perché mi disse, indicando una seggiola in disparte:

- Prego.

Avvicinai la sedia al tavolo, senza sapere perché lo stessi facendo, sollevato all’idea di non disturbare i suoi fantasmi.

Perché ero lì? Cosa volevo sapere?

Mi sentii in terribile disagio ed in dovere di iniziare una conversazione qualsiasi, di dire qualcosa.

- Che posto è questo?

ARI, rispose. Associazione Radioamatori Italiani.

E mi spiegò che quella stanzetta era la sede storica della sezione di Roma. Così la chiamavano, e chi li sentiva dire “Vado in sezione” avrebbe sempre pensato di avere a che fare con un covo di comunisti. A dire il vero, mi rivelò che la sede inizialmente era a San Giovanni, poi, però avevano dovuto abbandonarla per problemi di stabilità dell’edificio. Tutto ciò era accaduto venticinque o trenta anni prima e così avevano cercato un posto provvisorio e l’avevano trovato nel retrobottega di quel distributore. Avevano così traslocato tutti i loro oggetti che si compendiavano nel tavolo, nove sedie e i due casellari.

Poi, quella stanzetta era diventata la definitiva sede provvisoria della sezione di Roma e non avrebbero mai smesso di chiamarla così, “provvisoria”, anche se ormai vi erano talmente affezionati che nessuno aveva più osato cercare una nuova sistemazione.

- E parlate coi baracchini, vero? – dissi per dimostrare di aver capito ciò di cui mi stava parlando.

Ma il vecchio mi corresse:

- No, quelli sono i CB, la banda cittadina e qualcuno di noi, in effetti, è proprio un ex CB, ma non gli piace che glielo si ricordi. – e ridacchiò come se avesse appena fatto una battuta divertente –No, siamo Radioamatori. C’è una bella differenza.

- Perché, voi non parlate per radio? – domandai con tono volutamente scettico, come a sfidarlo a contraddirmi.

- Comunichiamo – disse – è molto diverso. Noi non parliamo alla radio, noi comunichiamo. E le parole sono solo un mezzo, uno dei tanti per farlo. Si può comunicare in molti modi e noi preferiamo il CW.

- Ci-vu-doppio – chiesi.

- Alfabeto morse – precisò.

Non so quale impressione diedi nel rispondere – Ah!

Forse pensò che immaginassi di avere a che fare con un gruppo di matti o forse che ero rimasto sbalordito.

E d’altra parte, non diede segno di essersi offeso perché, chissà quante altre volte, s’erano sentiti dare degli svitati.

Chiesi allora a cosa servissero i casellari e solo in quel momento notai che tutte le caselle erano vuote, tranne una.

Mi spiegò che si trattava del loro privato ufficio postale. Ognuno disponeva di uno scompartimento in cui venivano inserite le cartoline - le QSL, come le chiamavano loro - che ricevevano dagli altri Radioamatori sparsi per il globo a testimonianza dell’avvenuto contatto.

Trasalii.

Nell’era della comunicazione globale veloce, dei cellulari, di internet e dei satellitari in grado di identificare un preciso granello di sabbia nel bel mezzo del Sahara in base all’analisi del segnale spettrofotometrico lanciato contemporaneamente da tutti i miliardi di granelli di polvere presenti, quegli individui comunicavano con un alfabeto fatto di linee e punti e con le cartoline.

C’era del grottesco, in tutto ciò: sfruttavano le invisibili onde scoperte anni prima da un ragazzo pigro e poi si davano conferma del collegamento con il più lento dei sistemi, con cartoline che arrivavano persino dopo anni interi dal momento di quel contatto.

Domandai, allora, perché tutte le caselle – eccetto una – fossero vuote.

Il vecchio sospirò, rivelandomi di essere l’ultimo membro rimasto della sezione.

E gli altri, gli chiesi, che fine avevano fatto?

La donnona che fumava, l’uomo dalle mani enormi e tutti quelli che per anni avevo spiato dalla porticina?

- Tasti silenti – rispose.

Non ebbe bisogno di dire altro.

Restammo in silenzio per diversi minuti ed il vecchio non smise nemmeno per un istante di fissarmi, ieratico, mentre il respiro del cane che dormiva scandiva il tempo come un orologio sbuffante.

Incapace di sostenere quegli occhi liquidi, lasciai correre il mio sguardo lungo la stanza, lungo gli schedari silenziosi, sulle sedie vuote.

E allora capii che non erano affatto vuote, non per il vecchio, almeno.

Vidi tutti quelli che erano stati là, ascoltai le discussioni e fui testimone delle liti e degli scherzi.

Io non capivo – non potevo capire - cosa ci fosse di esaltante in un cavetto preparato sapientemente dalle mani giganti dell’uomo romano; per me sarebbe rimasto sempre un cavo buono a farci passare una qualche forma di elettricità - polo positivo, polo negativo - ma non potei fare a meno di trasalire ascoltando conversazioni avvenute anni prima, conversazioni di cui mi sfuggiva il significato apparente, ma che mi rivelavano il loro senso profondo: il desiderio di comunicare proprio del genere umano.

Divorato dalla curiosità, domandai al vecchio delle cartoline che erano nell’unica casella non silente.

- Sono le mie – disse.

- Da dove arrivano? – chiesi.

Si voltò verso lo schedario e me le porse.

Cominciai a scorrerle.

Alcune ritraevano persone, altre erano foto di paesaggi, altre ancora erano solo dei disegni. Su tutte v’erano sigle, numeri e valori per me privi di senso e mi stupì scoprire che in quel modo comunicavano persone di nazioni differenti, con un linguaggio tutto loro, una specie di Esperanto comprensibile solo agli iniziati.

Il mio interlocutore le aveva già viste tutte. Fu persino in grado di enunciarmele in perfetto ordine, sigla e paese di provenienza: Kenia, Tagikistan, Nepal, Uganda….

Mi sorprese vedere alcune di quelle cartoline provenire da nazioni che immaginavo irraggiungibili, o da paesi che nemmeno pensavo esistessero.

Il vecchio mi spiegò che teneva un registro accurato di tutti i suoi contatti e credo di aver capito che non si trattasse solo di una sua ossessione personale, ma che fosse obbligatorio farlo e ricordo anche che lo trovai molto strano perché, mi domandai, chi mai avrebbe controllato quei diari pieni di sigle ed orari?

- Ha parlato praticamente con tutto il mondo.

Mi guardò sornione.

Ciò che m’incuriosiva maggiormente, era scoprire cosa si dicessero persone tanto distanti l’una dall’altra, ma mi sembrò una domanda indiscreta, tanto quanto chiedere a qualcuno di rivelare cosa si sia detto con un amico nel corso di una telefonata.

Ma tutti quegli anni mi avevano reso familiari i volti delle persone che frequentavano il retrobottega e allora non ebbi remore nel chiedergli chi fossero e cosa si raccontassero, quando erano tutti là dentro.

Il più delle volte, mi disse, era solo un ritrovo di amici, qualcuno con cui condividere una passione comune.

Mi spiegò, infatti, come fossero, nella maggior parte dei casi, appena sopportati dalle famiglie per il loro urgente bisogno di comunicare.

I parenti accettavano con malcelata rassegnazione il frastuono ripetitivo proveniente dalla radio, le parole senza senso, le voci gracchianti a volte rese ridicole dalla distorsione delle trasmissioni, voci che da grevi assumevano buffi toni da Paperino, fino a trasformarsi in sibili acutissimi che foravano i timpani.

E allora, quei coraggiosi, quegli uomini in grado di contattare l’altro capo del mondo, finivano sovente per essere relegati nelle soffitte, nelle cantine, negli stanzini, nei ripostigli, ovunque non disturbassero, ma gli bastava portare un filo d’antenna verso l’esterno – forando pareti, infilando canne fumarie, risalendo grondaie - e dai loro cubicoli riuscivano ad evadere cavalcando le onde.

Avevano mogli che si disperavano per cene consumate fredde o di corsa per non perdere un solo minuto utile durante le gare di collegamento, sorelle e fratelli scettici, padri insofferenti – Guarda quello il tempo che spreca invece di studiare o di andare a lavorare che c’è il verderame da dare alle vigne!

Madri pazienti e preoccupate – Mi mangia male, mi dorme poco. Si ammalerà? – e allora sotto con spremute d’arancia – Almeno un po’ di vitamine le butta giù.

Ma loro, imperturbabili, restavano inchiodati alle proprie sedie – Aspetta, arrivo, questo non l’ho mai collegato prima! – e sovente finivano col cenare in solitudine, con minestroni lasciati coperti da piatti rovesciati su tavole apparecchiate a metà.

E a proposito di questo, il vecchio, prese a narrarmi un aneddoto strano, persino inverosimile.

- L’ho sentito diversi anni fa – precisò – e non ho mai deciso se crederci del tutto.

E’ una di quelle storie che non si sa da dove inizino, una di quelle che – L’amico di un mio amico un giorno stava….

 

“….stava seduto davanti alla sua stazione radio.

Aveva un nome strano, di quelli che ti chiedi cosa avesse fatto di male ai propri genitori per meritarsi una croce simile, come quelli che di cognome fanno Luciani e i padri decidono di chiamarlo Luciano, denotando non tanto una mancanza di fantasia quanto, piuttosto, un pessimo gusto.

Ho conosciuto, ad esempio, un Patrizio Patrizi, un Giuliano Giuliani e una Pompea Pompei.

Quel giovane, si chiamava Perseo.

Chissà quale colpa doveva scontare per guadagnare un nome del genere, forse una gravidanza poco piacevole, nausee e vomiti troppo a lungo mal sopportati, o forse qualche nonno dal nome mitologico, tipo Ercole e Andromaca.

E così, Perseo fu. Hai presente quello della Medusa?

Cresciuto in un paesetto di provincia, aveva scoperto per caso l’insana passione per la comunicazione radio.

Appena riuscì a mettere da parte qualche soldo, comprò un trabiccolo che oggi farebbe inorridire i nostri bambocci tutti internet e cellulare.

Un Pace123. Antiquariato. Archeologia delle telecomunicazioni persino allora, credimi.

Sistemare la stazione radio non fu che questione di un attimo: un filo d’antenna portato attraverso la finestra fino sul tetto e ritorto su se stesso. Un dipolo: la prima, rudimentale ed illegale forma di antenna direzionale. La più semplice da costruire.

Ben più difficile, invece, fu trovare un nome degno di essere lanciato nell’etere.

In parte per la condizione d’illegalità, - e poi dava un brivido farsi chiamare in un altro modo, un nome di battaglia come i leggendari partigiani della resistenza! - in parte per quel nome così poco comune che lo avrebbe immediatamente rivelato al mondo intero. Insomma, non si chiamava proprio Mario Rossi!

Passò in rassegna gli animali.

Tigre gli sembrò troppo aggressivo, Scoiattolo troppo effeminato.

Puzzola?
Ma per carità, il passo per chiamarlo Puzzone o Scorreggione con tutte le sue varianti sarebbe stato persino troppo breve.

Picchio? Eh sì, così lo avrebbero presto chiamato Picchiatello o magari Picchiapò (che detto fra noi adorava da matti!).

Provò quindi coi pianeti.

Marte…. No, mai stato per la guerra, lo avevano persino riformato ai tre giorni per “Ridotta Attitudine Militare”.

Venere…. non scherziamo con le cose serie.

Plutone? No no no, faceva troppo Pluto e poi, te l’immagini? Pippo e Pluto. Anzi Pippone e Plutone.

Nettuno. No, non era il caso: “Sono Nettuno”. Già li sentiva: “E te non tei nettuno, allora chi tei?”

Questo gli fece pensare ad Ulisse, ma subito abbandonò l’idea: col nome che si portava dietro dalla nascita non era il caso di scomodare altre figure mitologiche. No, meglio lasciar perdere i classici e così i vari Agamennone, Enea, Achille e Argo furono scartati senza la minima pietà.

Non riusciva proprio a venirne a capo.

Forse è proprio per ragioni del genere che il nome lo scelgono i genitori, così te lo trovi già affibbiato, cucito sulla pelle e magari a forza di sentirlo pronunciare dagli altri ti abitui pure al suo suono e non ti pare nemmeno troppo strano.

L’idea gli venne qualche giorno dopo passato nel ripostiglio ad ascoltare il gracidio dell’etere senza intervenire (il padre non gli aveva permesso di installarsi in camera da letto, consapevole che altrimenti avrebbe sempre trovato un’alternativa più divertente allo studio. Almeno, il ripostiglio poteva essere chiuso a chiave).

Una volta, a dire il vero, aveva sentito uno scambio di battute tra un paio di persone e aveva tentato di inserirsi nel modo convenzionale:

- Break! – aveva detto.

- Avanti il break – gli era stato risposto, ma a quel punto gli era salita un’emozione indicibile alla testa, la sua voce aveva viaggiato sulle invisibili onde e qualcuno lo aveva sentito, forse qualcuno al polo nord o in Australia o magari in America, e così non aveva avuto il coraggio di parlare e mentre teneva il microfono in mano, aveva sentito vampe di calore infiammargli il viso.

Non era preparato.

Cosa avrebbe dovuto dire?

Doveva presentarsi, doveva dare del lei a quelle persone?

E poi, con quel nome!

- Avanti il break – disse di nuovo la voce.

Spense il Pace, come se in quel modo potesse nascondersi, il cuore che gli pulsava nelle orecchie.

No, trovare un nome diventava imperativo.

E allora l’idea lo fulminò.

Avrebbe scelto il nome comune che non aveva mai ricevuto dai propri genitori.

Decise che sarebbe stato Giorgio, anzi siccome era un tantino in sovrappeso nonostante si allenasse sporadicamente a sollevare secchielli pieni di cemento immaginando muscoli possenti guizzare sotto la pelle, i radionauti l’avrebbero chiamato Giorgione.

Sì, Giorgio detto Giorgione gli parve un buon compromesso.

Sarebbe stato un nome comune reso sufficientemente autoritario ed in quel modo avrebbe fornito egli stesso il soprannome senza che altri potessero storpiarlo.

Prese allora il coraggio di riaccendere il suo baracchino e stava quasi per trasmettere il suo primo messaggio, quando un dubbio lo colse.

Cosa avrebbe risposto se gli avessero chiesto da dove modulava?
Non fu tanto il problema della legalità a turbarlo - per quanto, si diceva nell’ambiente, funzionari dell’Esco-Poste stessero in ascolto come cacciatori in agguato pronti a pizzicare il novellino che si buttava tra le onde senza concessione governativa (Perseo se li immaginava vestiti di grigio, da impiegati, la forfora sulle spalle, lo sguardo arcigno e l’odore di ufficio postale).

No, a trattenerlo fu ben altro.

Maledì la sfortuna che lo perseguitava: come avrebbe potuto dire di trasmettere dal paese di San Cesareo – sì, come il parto! -  oppure da Colle Pallone? Lo avrebbero deriso per l’eternità!

Decisamente, la sorte onomastica si accaniva contro di lui.

Probabilmente fu quello l’attimo in cui qualcosa dentro di lui scattò facendogli prendere la decisione, un giorno, di conseguire la patente di Radioamatore, perché rinunciò al proprio debutto finché non recuperò – chissà come – una mappa delle location ufficiali.

Allora scoprì che era in territorio JN61 e che la sua zona CQ risultava I0 e tutto ciò gli sembrò molto più professionale, più incisivo.

Finalmente era pronto e così squarciò il velo delle telecomunicazioni radio con il suo primo vero – Break!

Da quel momento in poi, Perseo – nell’ambiente conosciuto come Giorgione – diventò uno dei più conosciuti contatti tra i CB.

Si dice che i camionisti, passando nei pressi di JN61, zona CQ I0, cambiassero frequenza e si sintonizzassero sul suo canale solo per poter dire di averlo collegato.

In poche parole, divenne una celebrità.

Contattò gran parte delle regioni italiane e, con le giornate giuste, riusciva persino a raggiungere la lontana Sardegna.

Fu allora che il suo dipolo cominciò a stargli stretto.

Ancora inesperto nell’arte dell’elettrotecnica – ma non lo sarebbe rimasto a lungo – acquistò una otto elementi e la installò sul tetto, tra lo sguardo sconsolato del padre e quello terrorizzato della madre che immaginava tutti i fulmini del cielo colpire la loro casa.

Grande fu l’emozione quando, per la prima volta, udì voci di altri paesi provenire dal suo piccolo apparecchio radio.

Collegò la Francia, la Svizzera, la Spagna e udì anche le voci metalliche dei tedeschi rese ancor più graffianti dalle trasmissioni disturbate.

I suoi genitori continuavano a tollerare, senza incoraggiare, quel suo assurdo passatempo, soprattutto dopo che scoprirono che non sarebbe servito a molto chiudere il ripostiglio per farlo studiare, visto che spesso nascondeva nei libri scolastici i fumetti di Flash Gordon e di Topolino.

La passione cominciò a divorarlo.

Recuperò vecchi testi, ne comprò di nuovi ed iniziò a costruire da sé le proprie antenne, esplorando frequenze mai esplorate prima, apprendendo i rudimenti dell’inglese affinché potesse comunicare con gli stranieri.

Viaggiò su onde proibite, su quelle delle forze dell’ordine e di sicurezza e si narra che carpì segreti di stato e complotti governativi.

Innalzò tralicci sempre più alti su cui issare le sue ispide antenne.

Il padre continuava a brontolare per quei soldi sprecati, mentre la madre si chiedeva se il figlio non commettesse peccato a piantare tutti quegli aghi nel fondoschiena di Dio.

Oltrepassò la Manica e parlò con gli inglesi e poi navigò verso l'Irlanda e da lì attraversò per la prima volta l'oceano: l'America! Qualcuno dice che la Statua della Libertà scosse la testa per un istante, svegliata nel cuore della notte da una voce che proveniva dall'altro capo del mondo e che le ronzò accanto all'orecchio sinistro come una zanzara.

E poi fu la volta di Cuba e del Venezuela.

Aveva appeso sul muro del ripostiglio una mappa del pianeta su cui piantava una puntina da disegno ogni volta che collegava una nazione diversa.

Nel frattempo, la sua stazione diventò qualcosa di più che un semplice apparato CB.

Cominciò col comperare un microfono da tavolo, piuttosto che usare quello che i camionisti portano appeso nell’abitacolo e poi passò persino ad un preamplificato che gli permetteva di parlare senza stare necessariamente seduto al suo posto.

Il suo vecchio baracchino ormai non bastava più, ma non se ne liberò mai.

Mentre, intorno, apparati sempre più sofisticati arricchivano la sua stazione, il Pace123 restò lì come la prima pietra di quel muro tecnologico, una specie di chiave di volta levata la quale, tutto sarebbe potuto crollare.

Acquistò mappe e schemi per calcolare a che ora i satelliti in orbita intorno alla Terra gli permettessero di collegare i paesi più lontani.

L’Arabia Saudita, lo Yemen!

Aveva ormai collegato l’intera Europa e gli mancavano otto o nove stati del Nord America per completare gli USA.

Passava notti intere seduto alla stazione e la madre ed il padre osservavano la luce sotto la porta chiusa, scuotendo la testa per quel figlio che continuavano a credere un po’ fissato.

Ai manuali sostituì un computer sul cui schermo monocromatico era disegnato il planisfero e la zona di copertura del satellite.

Dal ripostiglio si udivano le voci dell’intero pianeta e bip-bip che ad ascoltarli bene riconoscevi altre lingue, non erano bip-bip in italiano.

Iniziò a ricevere cartoline (la più preziosa era quella pervenutagli da uno stato africano ormai scomparso dopo l’ennesima guerra civile) e a catalogarle.

Sostenne l’esame per diventare Radioamatore, ma inizialmente dovette accontentarsi della patente “speciale”, non avendo superato la prova di trasmissione dell’alfabeto morse.

Questo gli permise di abbandonare la clandestinità, ma per tutti restò Giorgione.

Fu libero, quindi, di esplorare nuove frequenze ed allora furono suoi il Sudafrica, il Madagascar, Singapore, la Turchia….

Il mondo non aveva ancora capito chi fosse Perseo; per tutti – e soprattutto per i genitori – restava un ragazzo poco cresciuto, talmente scarso a giocare a pallone che egli stesso s’era convinto d’essere buono solo per il ruolo di portiere, ruolo dove i suoi compagni di squadra lo relegavano ben volentieri, essendo lento e poco incline al controllo della palla coi piedi.

D’altra parte, persino Giuseppe Verdi fu bocciato al conservatorio ed Albert Einstein rimandato in matematica.

Perseo, tuttavia, non desistette ed ottenne ben presto anche la patente per il CW, superando brillantemente gli esami e divenendo, a tutti gli effetti, un vero marconista.

Ogni giorno che passava, la sua lista cresceva, e sulla mappa planetaria le puntine da disegno erano sempre più fitte e finalmente riuscì ad appendere al muro il diploma per aver collegato tutti gli stati degli USA.

Un giorno stabilì persino un QSO con il re di Giordania e di questo fatto egli si fece sempre gran vanto, raccontando ad amici e parenti di aver collegato nientemeno che il suo re, anche se – ad essere onesti - nessuno ha mai capito il senso di quella battuta che pure lo faceva sghignazzare come un bambino che legga la parola “culo” sul dizionario.

Organizzò, insieme con alcuni colleghi, spedizioni dal sapore pionieristico, sui monti, radio in spalla ed antenne componibili.

La prima fu sui monti Vivelui, ma fu più che altro una spedizione mangereccia e tutti i buoni propositi finirono nel calderone insieme al coniglio brodettato.

Poi fu la volta del Massogrande, in pieno inverno, quando imperversò una bufera e si raccolsero tutti in un rifugio isolato. Con loro, v’erano alcuni ragazzi in aspirazione di alpinismo e quando due o tre di questi tentarono inutilmente di sfidare la tormenta per ridiscendere a valle, fu Perseo a tranquillizzare gli animi dicendo che avrebbe chiesto soccorso con l’unico mezzo a loro disponibile ed allora rivissero le gesta di Giuseppe Biagi, il marconista della Tenda Rossa.

Tre lunghe notti passarono e all’alba del quarto giorno, in fondo alla vallata, videro il lento arrancare degli spazzaneve.

Perseo avrebbe sempre ricordato quell’avventura, come i vecchi soldati le campagne di guerra.

Vinse gare in cui contava contattare il maggior numero di paesi, ricevette riconoscimenti, installò stazioni radio nei posti più sperduti.

Collegò l’intero continente sudamericano, comprese le province più remote del Brasile ed ogni singola nazione costituente la federazione di stati dell’India. A quel punto, egli era l’unico al mondo ad aver ricevuto il DXCC #1 Roll Honor, il diploma riconosciuto al Radioamatore che colleghi le trecentotrentasette nazioni del globo.

Viveva ancora con i suoi genitori, che pure continuavano a chiedersi cosa diavolo succedesse dentro quel ripostiglio, del quale non possedevano più la chiave e di cui ormai era rimasto solo il nome, visto che le bottiglie, i formaggi e le granaglie erano stati spostati altrove, quando gli capitò l’evento più straordinario della sua vita.

Era una serata come le altre, intorno a Natale e il giorno prima, in casa, avevano allestito il tradizionale ramo d’abete sulla parete sopra il telefono.

La cena era stata appena terminata e lui si era alzato per tornare ai suoi apparati.

Mentre la sorella e la madre sparecchiavano, il padre si apprestò a guardare il suo film preferito in televisione.

Perseo era davanti alla radio, in ascolto - in QRX come direbbe lui - quando avvertì lo stimolo di mingere.

Con un elegante movimento rototraslatorio, ruotò sul perno della sua sedia girevole scostandosi nello stesso tempo dal tavolo e si avviò verso il bagno con passi misurati. Aveva appena afferrato la maniglia della porta, quando percepì uno sfrigolio mai sentito prima, una serie di suoni del tipo trasmissione disturbata che modulava su un registro normalmente non udibile nelle propagazioni radio, e una voce strappata provenire dagli altoparlanti:

- 4M00N/MOON.

Si pietrificò in quella posizione, le orecchie tese verso l’apparato.

Conosceva ormai a memoria le sigle di tutti i paesi del globo, ma quel QTH non l’aveva mai sentito prima.

Aspettò immobile, incredulo, in piedi nel corridoio, la mano sulla maniglia della porta del bagno finché udì di nuovo quella sigla:

- 4M00N/MOON

La Luna! Stava ricevendo il primo segnale mandato dalla Luna!

Un’intelligenza superiore stava trasmettendo dalla Luna proprio sulla frequenza su cui Perseo in quel momento era sintonizzato!

La sigla del film era appena finita e cominciarono le prime scene.

Si voltò di scatto e si catapultò verso il ripostiglio, scivolò sul pavimento proditoriamente lucidato dalla sorella quel giorno stesso e cadde; cercò il sostegno di qualunque cosa lo potesse sorreggere, finendo con l’afferrare i cavi delle luci intermittenti dell’albero di natale e trascinando a terra il ramo, fracassando palline che avevano miracolosamente resistito ad anni ed anni di assalti da parte di mani infantili avide di giocarci, si rialzò, avvolto da nastrini d’argento, e si lanciò sul microfono in preda all’eccitazione, gridando la sua richiesta d’ascolto:

- Sì-chiù, sì-chiù, sì-chiù di-ex, sì-chiù di-ex!

Nulla.

Le donne, sulla porta della cucina, guardavano a bocca aperta lo sfacelo del loro albero natalizio, mentre il padre si agitò sulla poltrona posta di fronte al televisore, infastidito da tanto baccano.

La sorella cominciò a sbraitare qualcosa, mentre la madre, volto tra le mani scuoteva il capo. Il padre si protese verso la televisione, nel tentativo di udire qualcosa.

- Sì-chiù, sì-chiù….

Erano anni che lo tollerava. Non ne poteva più. Aveva sopportato davvero troppo troppo a lungo.

- …. sì-chiù di-ex, sì-chiù, sì-chiù….

- E ‘si chiudi ‘sta porta ce fai un favore!

In ogni luogo ed in ogni tempo, un Radioamatore dovrà sempre chiudere una porta al bisogno di comunicare”.

 

Il vecchio rise ed io non potei trattenermi dall’andargli dietro.

La cagnetta sollevò la testolina e brontolò un abbaio, come se non gradisse quell’ilarità, ma subito si stese di nuovo, troppo affaticata dal suo pigro respirare per continuare ad essere davvero fastidiosa.

Quando le nostre risate si spensero, avevo stomaco e mascelle doloranti e sono convinto, ancora oggi, che non fummo i soli a ridere: l’intera compagnia dei suoi fantasmi rise con noi.

Poi vi fu un attimo di silenzio che si protrasse per qualche minuto.

Fui io ad interromperlo.

In effetti, dissi che la storia faceva acqua da tutte le parti ed il vecchio mi confermò che me l’aveva raccontata così come l’aveva sentita raccontare da qualche suo amico, come se fosse una specie di favola per Radioamatori.

Non mi accorsi di quanto passò velocemente quella domenica.

Si stava facendo tardi e la stanzetta, già male illuminata, cominciò a diventare tanto buia che, laddove era seduto il vecchio Radioamatore, stentavano a giungere i raggi di luce.

Io, col sorriso sulle labbra, come quando si gusta ancora per un istante una barzelletta divertente ed il buon umore resta sul palato, sfogliavo lentamente ed in silenzio le cartoline ma ormai facevo fatica a distinguere le scritte e le immagini e dovevo sporgermi verso la porticina da cui entrava, come fiume nero, la sera.

Stavo quasi per congedarmi, quando mi venne in mente che non sapevo ancora cosa stesse facendo là quell’uomo, solo, col suo cagnetto.

- Diciamo che sto aspettando una conferma – mi disse.

- Che conferma?

- Una molto speciale, che sto aspettando da anni.

Prima di uscire tentai di accarezzare la testolina della cagnetta, ma quella, senza muovere un muscolo, ringhiò basso.

- Abituata sì, - osservò il vecchio – ma amici non direi.

Lo salutai ed uscii.

Stavo già aprendo la portiera della macchina, quando mi diedi dello stupido per non aver afferrato prima il senso del suo racconto.

Kenia, Tagikistan, Nepal, Uganda….

Le cartoline erano messe nell’esatto ordine degli ultimi collegamenti di Giorgione!

E la conferma che aspettava da anni, quella conferma molto speciale…. Come poteva essermi sfuggito? Era il contatto ricevuto dalla Luna! Aspettava la QSL dalla Luna!

Attraversai d’un fiato la strada ed infilai la porticina.

Sapevo che era ancora seduto là e sapevo che stava sorridendo perchè ero finalmente arrivato proprio dove, passo dopo passo, lui voleva che arrivassi.

- Sei tu, vero? – dissi rivolto al buio – Sei Perseo!

- Trentaseo!

E rise di gusto.

 

Andrea

IL DESERTO DEI TARTARI - L'ABRUZZO TREMA  - L'ITALIA RADIANTISTICA SI MUOVE

Già in un altro post ho parlato dei radioamatori (link: chi punge il culo delle nuvole), questi strani personaggi con tanta voglia di comunicare col mondo, ma costretti a chiudere la porta per non disturbare a casa. In questi giorni si è sentito parlare molto di loro, in quanto nelle ore successive al sisma essi sono stati gli unici in grado di mettere in contatto le zone terremotate col resto del mondo.

 “CQ,CQ, CQ DX” (leggi:  “si chiù, si chiù, si chiù di ex”, il segnale di chiamata generale)

Mio nonno, nella sua saggia romanità, era riuscito a concentrare questo senso di emarginazione in una frase che vale più di mille post. Quando sentiva mio padre, da ragazzo, ripetere nel microfono “si chiù, si chiù…” non poteva fare a meno di intimargli “si chiù, si chiù, si chiùdi la porta ce fai ‘n piacere”.

Ricordo viaggi in macchina, tutta la famiglia che va al mare o in montagna. Niente autoradio, solo quei suoni distorti e quelle voci metalliche provenienti dalla radio. Io, mia madre e mio fratello non potevamo che lamentarci. Poi io e mio fratello abbiamo scoperto il walkman, mia madre si è sorbita all’infinito quelle sigle incomprensibili.

“buon 144” che sebbene abbia a che fare con la notte, non c’entra niente con la telefonia erotica.

“73” che non è una nostalgica reminiscenza di anni passati.

“Bailamme”, che è molto più elegante di “casino”. Mi sono sempre chiesto se in realtà non si debba pronunciare “bailàm”, parola poi arricchita dal romanesco con la doppia M e la E finale, esattamente come accade in tramme e autobusse. Potrei chiedere a mio padre, o andare a controllare su wikipedia, ma preferisco restare con la domanda irrisposta.

“Break, break, break” uno dei termini più azzeccati, che in effetti a sentirlo ripetere ciclicamente, rompeva davvero.

E il microfono non era solo un microfono, era il “Mike”. E con un nome così, non puoi semplicemente parlare: ma “modulare”.

Tutti speravano di poter “copiare” gli altri, ma a differenza di quando si era a scuola, speravi anche che gli altri copiassero te. “Copiare” significa infatti “ricevere, ascoltare”.

Per ridere si dice “Acca i”, visto che in un mondo esclusivamente sonoro non si possono usare le faccine di messenger.

Si odiavano le “portanti”, non per classismo verso le cameriere, ma perché la portante era un segnale radio che alcuni usavano per occupare la frequenza, tanto per rompere le scatole.

E se tua moglie ti implorava di chiudere la porta, tu potevi dire a chi fosse in ascolto che tua moglie rompeva le scatole, anche se lei era a portata d’orecchio: tanto non si sarebbe riconosciuta nel nominativo XYL (ex young lady, un termine nemmeno tanto carino nei suoi confronti)

E poi QRT, QRX, QSL, QTH, QTR, QRM, e chi più ne ha più ne metta, linguaggi così strani che speriamo non lo sentano i marziani, potrebbero essere gravi insulti nella loro lingua.

Poi mio padre è cresciuto, e ha fatto il salto: da ormai molti anni non è più CB (Quelli che hanno le radioline dei camionisti, per intenderci) ma ha conseguito la patente di Radioamatore (papà, nel caso tu legga questo post, ti faccio notare che l’ho scritto maiuscolo). Non confondeteli: sarebbe come confondere un portantino con medico.

Mio padre mi ha sempre raccontato che i radioamatori, quando cadono tutti i mezzi di comunicazione, restano l’unico contatto col mondo. Come avvenne ad esempio in occasione della tragica spedizione del dirigibile Italia, dove solo grazie alla radio fu possibile portare in salvo i sopravvissuti, dispersi per 48 giorni fra i ghiacci dell’artico. Io ho sempre immaginato scenari post-apocalittici alla Mad Max, con mio padre con la barba incolta, spettinato, vestito di stracci e pelli, al comando di un gruppo di sopravvissuti con una radio di fortuna. E’ un evento un tantino improbabile, anche perché mio padre non andrebbe mai in giro spettinato. Insomma, ho sempre pensato che quell’aspetto “eroico” del radiantismo fosse riservato ad altri tempi o altre parti nel mondo.

E poi è arrivato il terremoto.

Mio padre quella notte, come moltissimi altri radioamatori, si è lanciato subito alla radio, e lì ha trascorso tutta la notte. Le linee telefoniche non funzionavano più, e i cellulari non si sono dimostrati affidabili per l’intasamento dell’etere. I radioamatori sono stati l’unico contatto tra le zone terremotate e il mondo. I primi soccorsi sono arrivati grazie a loro.

Nel libro che ho citato nel titolo del post, il giovane tenente Giovanni Drogo passa tutta la vita in una fortezza, con l’inconfessata speranza che il nemico possa davvero arrivare, così da poter dare un senso alla propria esistenza. Non so se qualche radioamatore abbia coltivato nel fondo del cuore un sentimento del genere: so soltanto che quando il nemico è arrivato, loro erano pronti, e non si sono tirati indietro.

Il mio applauso a queste persone che hanno saputo fare del proprio hobby un mezzo per salvare vite umane.

Si chiù, si chiù, si chiùdi la porta ce fai ‘n piacere.

Ma ti prego, papà, continua a trasmettere.

 

Stefano

A mio nonno Rodolfo

 

 

L’odore del sarmento

 

Seppellitemi sotto la pianta del pomodoro.

Il mio funerale lo faranno le formiche.

In fila ordinata ognuna di loro

porterà dalle tane sotto le ortiche

un granello di terra alla fossa

e con una morbida coltre mi copriranno le ossa.

Le cicale del pomeriggio piangeranno la mia morte

nascondendo il dolore tra il nocciolo e l’alloro.

Canteranno per me il requiem i grilli della notte.

Quando il sole calerà innalzeranno addolorato un coro.

Ogni colpo di zappa che scheggerà le mie ossa

sarà per me un funebre tocco di campana

e di lontano la notte e all’alba rossa

veglierà su di me il cane alla catena

(un cerchio è tutto il suo mondo).

E mentre il tempo passa, là nella sua cuccia,

e il mio corpo putrefatto esala un fetore nauseabondo,

dal tinello arriverà odore di tufo e di mentuccia.

Il suo ululato nella fredda notte nera

quando in cielo è luna piena sarà la mia preghiera.

Compagnia mi sarà il verme delle zolle.

La pioggia d’argento sarà la libagione

d’un cielo di piombo alla memoria di un Folle.

Ogni foglia del sarmento porterà inciso il mio nome.

Sarà canna di bambù la mia pietra sepolcrale.

Frusciando gemeranno nel vento autunnale

gli alberi maestosi in sottili vesti d’oro.

Seppellitemi sotto la pianta del pomodoro.

 

Andrea

CHI PUNGE IL CULO DELLE NUVOLE

Questo post un po' anomalo con la linea del mio blog riguarda i radioamatori. Questi animali strani, che spesso vengono costretti dalle famiglie a chiudere la porta perché gli apparati radio non smettono di vomitare punti e linee ad alto volume, di comunicare con sigle incomprensibili ai profani, con gerghi indecifrabili, in mezzo a un mare di voci metalliche che si distorcono fino a diventare sibili acutissimi. E paradossalmente, questi strani animali vengono confinati proprio perché sentono l'irriducibile desiderio di comunicare con tutto il mondo.

Mi rivolgo a questi uomini e a queste donne che traducono le parole in punti e linee, che fungono da ponti di comunicazione in caso di calamità naturali che distruggono le linee di comunicazioni, queste persone che dalle proprie case innalzano canne da pesca e tralicci alti come cattedrali gotiche e punzecchiano il culo delle nuvole per riuscire a contattare il Brasile, il Giappone, l'Australia... e per dirsi cosa? Per scambiarsi qualche sigla assurda, per tarare i loro apparati e le loro antenne per poter arrivare sempre più lontano (prima o poi su Giove, o Saturno), e per scambiarsi cartoline personalizzate che servono semplicemente a dire "ci sono riuscito".

In questo post mi rivolgo a tutti i radioamatori dell'ARI sezione di Roma, che da poco hanno eletto il loro nuovo Presidente. Io non appartengo a questa scelta schiera di comunicatori internazionali; figuratevi, né mio lavoro né i miei hobby valicano le frontiere della mia regione. Quindi non so dire quali siano i requisiti tecnici che tale carica richiede. Ma se nella lista dei requisiti devono comparire responsabilità inossidabile, assoluta dedizione e poi onestà, onestà e ancora onestà, in questo senso i radioamatori di Roma meritano grandi congratulazioni perché non avrebbero potuto fare scelta migliore.

Auguri a tutti i radioamatori italiani e al nuovo Presidente!

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Stefano